domenica 21 febbraio 2016

Milan Kundera - L'insostenibile leggerezza dell'essere




(…)Le vite umane sono costruite come una composizione musicale. L’uomo, spinto dal senso della bellezza, trasforma un avvenimento casuale in un motivo che va poi a iscriversi nella composizione della sua vita. Ad esso ritorna, lo ripete, lo varia, lo sviluppa, lo traspone, come fa il compositore con i temi della sua sonata.(...)
 (...)L’uomo senza saperlo compone la propria vita secondo le leggi della bellezza persino nei momenti di più profondo smarrimento. Non si può quindi rimproverare ad un romanzo di essere affascinato dai misteriosi incontri di coincidenze, ma si può a ragione rimproverare all’uomo di essere cieco davanti a simili coincidenze della vita di ogni giorno, e di privare così la propria vita della sua dimensione di bellezza. (…)

mercoledì 17 febbraio 2016

José Saramago - Le intermittenze della morte



«Sapremo sempre meno che cos’è un essere umano»



Le intermittenze della morte – un romanzo ironico e sarcastico sul tema della morte e della sua temporanea latitanza, in cui un evento assurdo finisce con il diventare logico.

«Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò negli spiriti enorme turbamento…»
Con questa affermazione si apre il romanzo di José Saramago (1922- 2010) narratore, drammaturgo e poeta portoghese, premio Nobel per la Letteratura nel 1998.

L’ambientazione è omessa: la morte si è presa una pausa, regalando un'inaspettata eternità in un Paese non definito, ai confini del quale il ciclo della vita continua invece ignaro. L’evento narrato possiede uno sfumato tempo d’inizio, che coincide con la mezzanotte di un 31 dicembre, e una fine inusuale, che si trasforma in un tempo sospeso.
Attorno a questo fatto irrazionale ruota il romanzo, interamente scritto, quale tratto distintivo dell’autore, in assenza dei convenzionali segni di punteggiatura , con discorsi diretti e indiretti che si fondono in lunghe frasi senza pause.
Lo stile narrativo contribuisce a creare pathos, ma pure ad appesantire, a tratti, la lettura.

La morte, volutamente, è scritta e si firma essa stessa con l’iniziale minuscola, perché «le morti di ciascuno sono morti per così dire dalla vita limitata, subalterne, muoiono con colui che hanno ammazzato, ma al di sopra di esse ci sarà una morte più grande, quella che si occupa dell’insieme degli esseri umani… Quella che distruggerà l’universo, che realmente merita il nome di Morte, anche se quando ciò accadrà non si troverà più nessuno a pronunciarlo…»

Un’assenza e una presenza si alternano in tutto il romanzo: manca la morte come fatto e compare materialmente la morte nelle vesti di uno scheletro prima, di una donna successivamente.
I personaggi, legati insieme da questa paradossale situazione, restano in vario modo intrappolati a progettare e ragionare intorno alla nuova e anomala realtà. L’ immortalità presto si trasforma in dramma e le tragedie singole si intrecciano ai dolori collettivi.
 «In tal caso, intervenne un filosofo dell’ala ottimista, perché vi spaventa tanto che la morte sia finita, Non sappiamo se è finita, sappiamo solo che ha smesso di ammazzare…»

Il decadimento umano però non si ferma: la malattia non è sconfitta, gli incidenti, le sofferenze, i dolori continuano. La classe politica è preoccupata e sconcertata di fronte a cambiamenti epocali che non è in grado di gestire, arrivando a prendere accordi con una non ben identificata maphia. La Chiesa appare sgomenta di fronte alla notizia: non può più predicare la vita eterna dell’anima giacché i corpi stessi sono diventati eterni. Per la «dottrina» l’assenza della morte diventa immediatamente più insopportabile della sua presenza.

«Senza morte, mi ascolti bene, signor primo ministro, senza morte non c’è resurrezione, e senza resurrezione non c’è chiesa»

Nel gioco di situazioni imprevedibili la voce narrante lascia talvolta spazio a quella dell’autore che chiede complicità ai lettori, lanciando una sfida: accettare le sue proposte narrative, perché diventi coerente il fatto assurdo. Come in altre opere Saramago, attorno a un evento surreale, ricrea una storia di cui è superfluo chiedersi il motivo. Scandagliare il pensiero umano è il suo unico fine narrativo.

«E’ così che solo un’educazione raffinata, di quelle che ormai stanno diventando rare, unitamente, forse, al rispetto più o meno superstizioso che la parola scritta suole infondere nelle anime timorate, abbia portato i lettori, benché non mancassero loro i motivi per manifestare espliciti segnali di mal repressa impazienza, a non interrompere quello che abbiamo fin qui riferito…»

Anche lo scrittore prende la parola in merito alla morte: «A proposito, non resistiamo a rammentare che la morte, di per sé, da sola, senza alcun aiuto esterno, ha sempre ammazzato molto meno dell’uomo»
E la stessa morte, quasi a scusarsi con l’umanità intera: «C’è un punto su cui mi sento in obbligo di riconoscere il mio errore, il quale punto ha a che vedere con l’ingiusto e crudele procedimento che stavo seguendo, vale a dire togliere la vita alle persone a tradimento, senza preavviso…» 

La parentesi di eternità dura sette mesi, dopo i quali la morte torna dunque all’opera grazie a missive dal colore violetto.

«D’ora in poi tutti quanti saranno avvertiti e avranno la scadenza di una settimana per mettere in ordine quanto ancora gli resta di vita…»

Ancora la voce dell’autore, quasi a ribadire l’assoluta ovvietà dei fatti e a chiedere  consenso ai lettori: «Ma la morte non ha alcuna necessità di essere crudele, a lei, togliere la vita alle persone basta e avanza… E ora, concentrata come dovrà essere sulla riorganizzazione dei suoi servizi di appoggio dopo la lunga sosta di sette mesi, non ha occhi né orecchie per le urla di disperazione e di angoscia degli uomini… e delle donne che, uno dopo l’altro, vengono avvisati della morte prossima...»

Senonché anch’essa, dopo aver dichiarato «io sono la morte, il resto è nulla» incappa in un imprevisto e deve vestire i panni di una vulnerabile donna, che condurrà il lettore a un finale non scontato, legato a una lettera rinviata al mittente per tre volte.

(Pubblicato su VORREI - culture- 15-06-2013)

Italo Calvino - La giornata d'uno scrutatore

"l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che gli diamo






Per scrivere una storia così breve, ci ho messo dieci anni, più di quanto avessi impiegato per ogni mio altro lavoro. La prima idea di questo racconto mi venne proprio il 7 giugno 1953. Fui al Cottolengo durante le elezioni per una decina di minuti. (…) ero candidato del Partito Comunista… assistetti a una discussione… fu lì che mi venne l’idea del racconto. Provai a scriverlo, ma non ci riuscii… Pensai che avrei potuto scrivere solo se avessi vissuto veramente l’esperienza dello scrutatore che assiste a tutto lo svolgimento delle elezioni lì dentro.
L’occasione nel ’61. Passai al Cottolengo quasi due giorni e fui anche fra gli scrutatori che vanno a raccogliere il voto nelle corsie… Il risultato fu che restai completamente impedito dallo scrivere per molti mesi… Insomma, prima ero a corto di immagini, ora avevo immagini troppo forti.
Ho dovuto aspettare che si allontanassero, che sbiadissero un poco dalla memoria… ho dovuto far maturare sempre più riflessioni… come un seguito di onde o cerchi concentrici…


Ecco il Calvino della mia maturità, così diverso da quello conosciuto sui banchi di scuola.
Non più lo stupore nel seguire un funambulo gentiluomo arrampicato sugli alberi; né la commozione per quel guerriero spaccato a metà da una cannonata; né l’illusione d’incrociare la via tracciata da un cavaliere inesistente.
È un uomo qualunque quello che ho ritrovato in questo testo, un attivista moderato di un partito di sinistra non ben specificato, scelto per ricoprire il ruolo di uno scrutatore al Cottolengo.

Anno 1953.
In una giornata piovosa ha inizio il viaggio di Amerigo (e con il nome che gli è stato affidato, altro non avrebbe potuto fare) attraverso “un’Italia nascosta … il rovescio di quella che si sfoggia al sole, che si ammira per le strade e che pretende e che produce e che consuma; che era il segreto delle famiglie e dei paesi …
Un viaggio che ha dell’assurdo, dell’irragionevole: se avessi letto il libro senza conoscerne l’autore, lo avrei associato a Saramago.
Calvino si scontra con l’infelicità, si chiede quanto pesi su ognuno di noi la responsabilità di generare nuove vite, fa suo il dolore di chi è reietto, condannato all’ombra, inconsapevole pedina di questa nostra esistenza, eppure sfruttato per creare numeri, voti, potere.
non avevo mai osato sfiorare questi temi prima d’ora. Non dico ora d’aver fatto più che sfiorarli; ma già l’ammettere la loro esistenza, il sapere che si deve tenerne conto, cambia molte cose.”

Questo breve romanzo è un concentrato di polemiche, di fatti politici, memorie storiche, di confini invalicabili fra la città-dell’homo-faber - che si è arrogata il diritto di conoscere in modo esclusivo il segreto del “fuoco … senza il quale le città non si fondano, né le ruote delle macchine vengono messe in moto” - e il mondo-Cottolengo, antitesi della” vanità del tutto”.
Sul finire del viaggio l’approdo all’amore in due diverse sfumature, a quell’amore che non porta traccia di pensiero razionale.
Vagando tra le corsie come membro del seggio, il protagonista scorge una suora che ha fatto del Cottolengo il suo luogo di missione. L’amore come scelta.
Poi un anziano padre che “non aveva scelto nulla, perché il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove, ma faceva alla domenica il viaggio per veder masticare suo figlio”. L'amore come  necessità, come conseguenza inevitabile.
Seduti ai lati del letto, in modo da potersi reciprocamente guardare con l’angolo dell’occhio, due esseri legati dal sottile filo di un altro tipo d’amore. “Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore." E poi: " l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che gli diamo”.

( pubblicato su VORREI - Il mio #Calvino IV. La giornata di uno scrutatore)

Hermann Hesse - Demian

"Eppure, non volevo tentar di vivere se non ciò che spontaneamente voleva erompere da me.
Perché era tanto mai difficile?”


Demian , un libro ricco di significati e di simboli; un mosaico incentrato sulla crisi esistenziale, intesa non come sconfitta, ma come cambiamento, elevazione.
L’ apertura del romanzo è un inno alla vita e all’irripetibilità di ogni essere umano.
Ogni uomo però non è soltanto lui stesso; è anche il punto unico, particolarissimo, in ogni caso importante, curioso, dove i fenomeni del mondo s’incrociano una volta sola, senza ripetizione” .
Il concetto viene poi ribadito poche righe dopo, laddove il fulcro dell’esistenza di ogni uomo si identifica con il personale “mettersi in gioco” :
La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una via, l’accenno di un sentiero. ..Tutti noi abbiamo in comune le origini, le madri, tutti veniamo dallo stesso abisso: ma ognuno, tentativo e rincorsa dalle profondità, tende alla propria meta. Possiamo comprenderci l’un l’altro, ma ognuno può interpretare soltanto se stesso”.
E ancora : ”ciò che la natura vuole dall’uomo sta scritto in ognuno, in me in te” .

Il filo conduttore di tutto il romanzo è il concetto di “cammino”, da intendersi principalmente come ricerca dell’Io, scisso fra il bene e il male, fra il sentirsi “parte” e l’esser “esclusi.
Il cammino è quello che intraprende il protagonista, che a soli dieci anni si scontra con due mondi che convivono fra le mura in cui abita.
Molti sperimentano la morte e la rinascita, che sono il nostro destino, una volta sola nella vita, quando cioè l’infanzia si decompone e lentamente crolla.” … “Due mondi vi si confondevano e da due poli arrivavano il giorno e la notte.”
Da una parte una madre, un padre con  il loro rigore morale, la parola della Bibbia  quotidianamente vissuta e imposta, il senso di perfezione e di sicurezza proprio del focolare domestico.
 Dall’altra, le storie di spiriti, le voci di scandali, la dissolutezza, gli incontri che sconvolgono la vita.

Così cadono le fronde intorno all'albero in autunno: esso non ne sa nulla, la pioggia lo bagna o lo colpisce il sole o il gelo, la vita gli si ritrae lentamente in uno spazio minimo e intimo. Esso non muore. Aspetta.”

Gabriel Garcia Marquez - L'amore ai tempi del colera



''..Capita che sfiori la vita di qualcuno, ti innamori e decidi che la cosa più importante è toccarlo, viverlo, condividere le malinconie e le inquietudini, arrivare a riconoscersi nello sguardo dell'altro, sentire che non ne puoi più fare a meno... e cosa importa se per avere tutto questo devi aspettare cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni notti comprese?...''



Dopo “Cent’anni di solitudine” solo la curiosità mi ha spinto a iniziare  “L’amore ai tempi del colera” .
Affrontare Marquez significa fare i conti con il suo stile   “monumentale”, con una scrittura  cupa,   non sempre scorrevole, a tratti pesantissima, con i 
salti temporali che disarmano, con inaspettate invenzioni letterarie, con la passione che trasborda e domina  ogni altro sentimento.

Il romanzo parla d'Amore, ma inteso come legame incompreso, causa persa, battaglia da portare a termine tenacemente. Un Amore che lascia senza fiato, capace di 
infrangere il muro del tempo e della ragione, di restare puro, pur attraversando umiliazioni, negazioni, brutture della vita . 
Il protagonista,  non è certamente un santo…perché, scrive Marquez, “ il cuore ha più stanze di un casino!", ma è proprio questo suo duplice, o meglio, molteplice tratto  che eleva e lo distingue.
La frase sopra riportata è il culmine della storia, l'elemento per cui vale la pena di arrivare al termine del romanzo. Dà un senso e una spiegazione alla tenacia del protagonista: ci mostra quell' Amore che 
chiunque vorrebbe per sé e, forse, vorrebbe esser capace di donare!

Konrad Lorenz - L'anello di Re Salomone



(...) "Come sarei grato al mio destino se anch'io nella mia vita ... potessi scoprire una sola "corrente ascensionale" che in un lontano futuro aiutasse qualcuno a prendere quota" (...)
 K. Lorenz – L’anello di Re Salomone - 1967



(…)mi stendo sulle verdi rive di un ramo secondario del Danubio, quasi fiabesco nella sua realtà, in un paesaggio primordiale in cui manca il minimo richiamo alla civiltà umana, e a volte riesco ad operare quel miracolo cui tendono, come a una meta superiore, i più grandi saggi dell’Oriente: senza che mi addormenti, il mio pensiero si dissolve nella natura circostante, il tempo si arresta e non significa più nulla. Quando il sole tramonta non so più se sono passati dei secoli o degli anni. Questo animalesco nirvana costituisce il migliore contrappeso al lavoro intellettuale, ed è un vero balsamo per le molte piaghe che, nella sua corsa affannosa, l’uomo moderno porta nell’anima.(…)

Alejandro Jodorowsky - La danza della realtà

(…) l’amore: è la gratitudine perché l’altro esiste.(…) 



Ci sono testi che ti stendono, come un pugno nello stomaco e forse per questo vale la pena consumarne le pagine fino alla fine. In questa autobiografia Jodorowsky si riflette in un mondo di eccessi, dove nulla è banale, dove tutto è vissuto con passione, oltre la ragione. Il suo narrare ferisce per la crudeltà di certe immagini e, insieme, commuove quando sfiora con delicatezza temi quali l’amore, le relazioni familiari, la vita, la morte.
Difficile per me comprendere certi passaggi: le mie radici culturali sono lontane dal considerare la psicomagiaatto curativo” o le terapie a base di allucinogeniarte che eleva”.
Fin da subito la ragione mi ha imposto quelle stesse barriere che J. ha tentato di valicare con i suoi gesti estremi, con le sue follie poetiche, con le sue truci rappresentazioni teatrali. Alla fine ho dovuto abbassare tali barriere, per poter proseguire la lettura, per poter arrivare fino in fondo, per poter ricevere quella scossa che, egoisticamente, pretendo sempre quando intraprendo un viaggio attraversando un libro.
E chiusa l’ultima pagina, ancora inondata da sentimenti contrastanti, dal rifiuto- all’ammirazione, dall’orrore- alle lacrime, faccio mio un suo pensiero, ricordando chi non è più accanto a me:
 “ …nella misura in cui gli altri ci ricordano, noi viviamo. Se ci dimenticano, ci sentiamo morire. Nel mondo onirico succede la stessa cosa. Se l’inconscio è collettivo e il Tempo eterno, si può dire che ogni creatura nata e morta sia rimasta incisa nella memoria cosmica che ogni individuo reca dentro di sé. Oserei dire che ogni morto attende nella dimensione onirica che una coscienza infinita si ricordi finalmente di lui.
Alla fine dei Tempi…nessun essere, per quanto insignificante, verrà dimenticato.”

martedì 16 febbraio 2016

William McIlvanney - Il regalo di Nessus


"Sapere esattamente ciò che si sta facendo è un modo per perdersi lo stupore del meraviglioso e del sorprendente che ogni individuo crea - il magico flusso senza fine in cui tutti noi viviamo."
William McIlvanney - (prefazione a Shades of Scotland )


  


Ma cos’è che ci succede?... Noi iniziamo come persone reali. Cos’è che occulta i nostri stessi sogni, ingabbiandoci in un cliché, e rendendoci riluttanti al confronto reciproco?... E’ strano pensarci adesso…Un tempo eravamo persone.
“Spaventosamente sincero” lo definisce The Times. Concordo, aggiungendo che, per ragioni personali, solitamente glisso simili letture. Mi turba leggere degli abissi altrui, delle storie familiari che falliscono, dei tradimenti, delle crisi che esplodono in personaggi al di sopra di ogni sospetto, che hanno una carriera consolidata, una famiglia, un tetto, una buona posizione sociale, dunque nessun motivo apparente per nutrire e coltivare un disastro esistenziale che porti al baratro.
Mi blocca una sorta di pudore-rispetto, forse la volontà di un non-giudizio.
In questo caso sono stata attratta e coinvolta più che dalla trama, dallo stile narrativo di McIlvanney, così lontano dai suoi contemporanei Bukowski, Kerouac, Osborne ( giusto per ricordane alcuni).
E’ stato questo suo tratto unico e distintivo che ha accompagnato il mio viaggio, non sempre facile: la scelta di un lessico ricercato, di continui e quasi ossessivi paragoni, rimandi a temi classici e mitologici, a radici culturali della sua Terra.
Un valore aggiunto che ho imparato ad apprezzare, strada facendo.
Altra nota di merito che mi sento di annotare è la capacità dell’autore di far convivere momenti di calma piatta, con disperate introspezioni; serate brave fra colleghi, con drammatici confronti fra anime .
Nel momento in cui il dramma di un suicidio annunciato si fa strada, ho poi avuto la sensazione che McIlvanney volesse condurre il lettore ad una sorta di comprensione/compassione verso l’atteggiamento di rigidità di una delle figure chiavi del romanzo ( la moglie del protagonista), riportando alla neutralità ogni possibile giudizio emotivo o morale.
Il regalo di Nessus, una tunica che aderisce al corpo, fino a fondersi con la pelle.
Ruoli e clichè che soffocano e annientano.
Un rimando alla mitologia greca che colpisce nel segno, anche per la sua attualità.

(P.s. Grazie a W.G.P.)

Primo Levi

"La memoria umana è uno strumento meraviglioso, ma fallace. " - I sommersi e i salvati


Leggere Levi con la distanza e l'obiettività che dovrebbe contraddistinguere chi non ha vissuto il suo dramma è impossibile. E' come se il peso delle colpe passate continuassero a gravare in una perpetua ripetizione.
La sua scrittura precisa, austera, essenziale, colpisce in pieno viso.
Alle mille domande che il lettore si appunta, Levi risponde in modo diretto. I dubbi, i vuoti, i perchè sono catalogati, con la stessa ossessiva precisione con cui le SS contabilizzavano i prigionieri, prima di decretarne il destino.

"I sommersi e i salvati" funge forse da riepilogo generale: i Lager vengono sezionati, studiate le dinamiche fra aguzzini e vittime, fra vittime e vittime.
Perchè l'Olocausto? Perchè non vi fu ribellione da parte degli Ebrei? Davvero la gente comune non sapeva? Chi erano gli aguzzini? 

Così precisa nel capitolo conclusivo " Il termine "aguzzini "  fa pensare  a individui distorti, nati male, sadici...invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male:...alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera....Tutti avevano subito la terrificante diseducazione fornita e imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler... Alcuni, pochissimi per la verità, ebbero ripensamenti, chiesero il trasferimento al fronte....o scelsero il suicidio....dietro la loro responsabilità sta quella della maggioranza dei tedeschi, che ha accettato all'inizio, per pigrizia mentale, per calcolo miope, per stupidità, per orgoglio nazionale, le belle parole del caporale Hitler, lo ha seguito finché la fortuna e la mancanza di scrupoli lo hanno favorito, è stata travolta dalla sua rovina, funestata da lutti, miseria e rimorsi e riabilitata  pochi anni dopo,  per uno spregiudicato gioco politico."




"Coloro che hanno sperimentato la prigionia ( e, molto più in generale, tutti gli individui che hanno attraversato esperienze severe) si dividono in due categorie ben distinte, con rare sfumature intermedie: quelli che tacciono e quelli che raccontano. Entrambi obbediscono a valide ragioni..." - I sommersi e i salvati -


























da I sommersi e i salvati
Jéan Améry-filosofo (Hans Mayer). Così ne parla Levi:" a lui di essere ebreo non importa, ma per i nazisti le sue opinioni e tendenze non hanno alcun peso: la sola cosa che conti è il sangue, ed il suo è impuro quanto basta per farne un nemico del germanesimo".

Riferendosi poi al tema del suicidio nel 1896 scrive   che "gli scopi della vita sono la difesa ottima contro la morte, non solo nel Lager" . 
 Perché, dunque, nell' aprile dell' 87  Primo Levi si uccide?

domenica 14 febbraio 2016

L'uomo che allevava i gatti - Mo Yan

Quando un libro finisce, ma la sua storia, come eco, continua a tornare …




 L’uomo che allevava i gatti: un libro dal titolo curioso, preso dal suo ultimo racconto, una storia surreale che ricorda la fiaba del Pifferaio Magico.

Ho atteso qualche giorno prima scrivere le mie impressioni  su questo testo di Mo Yan del 1986. Avevo necessità di ritrovare   equilibrio,  superare il disagio provato.

Perfetta la motivazione del Nobel vinto nel 2012: qui, e sicuramente più che in “Le rane”, l'“allucinante realismo” pervade ogni frase,  al punto da togliere ogni possibilità di replica.

Dure le trame che legano fra loro i nove racconti; unico il protagonista che rivive i luoghi della sua infanzia e ritrova nel presente le sue radici; agghiaccianti le  immagini di vita quotidiana. 

La capacità di MoYan di creare illusioni emotive è notevole: una sfida che si gioca fra  poetiche   descrizioni ambientali  e  gesti di  una brutalità disarmante. 
Profumi e  colori, alberi in fiore, fiumi, la natura con le sue stagioni,  sono solo veli sovrapposti, sotto i quali si consumano drammi, violenze,   abusi, soprusi . Una  “normale quotidianità contadina” di pochi decenni fa, che pare però proiettata nel periodo più cupo del nostro Medio Evo. 
Così una madre amputa il dito indice del figlio per impedirgli di andare a caccia, perché (…)”studiare seriamente è il tuo solo dovere, ricordalo!”(...).
I figli sono picchiati dai genitori fino a morirne; i loro resti abbandonati nei campi, alla mercé del  villaggio, affinché attraverso il sacrificio sia lavata un’onta, sia salvo l’onore della famiglia umiliata.
Padri austeri, imponenti, più simili a tiranni, urlano la loro rabbia; madri fragili, prive di diritto di replica, soccombono e bambini, tanti, troppi, muoiono tragicamente o sopravvivono senza grazia alcuna, come fantocci in balia della vita. 
Scrive l’autore che durante il periodo del controllo delle nascite ( nrd. - a partire dalla metà degli Anni Sessanta) (…)“ il neonato abbandonato era uno strano oggetto nel quale si concentravano un gran numero di contraddizioni: sbarazzarsene non era giusto, non sbarazzarsene anche.  L’umanità si è evoluta sino ai nostri giorni, ma la sua distanza dal mondo animale è sottile quanto un foglio di carta bianca. La natura umana è fragile e sottile quanto un foglio e, con la stessa facilità, si lacera al minimo tocco…”(…). 
E più tardi, quando  l’Europa sta vivendo l’ebrezza dei “Mitici Anni Ottanta”, in Cina (…)" si combatte la venuta al mondo, come   un flagello.(...) Ma , si domanda l'autore (...)Preservativi, spirali, aborti, chiusura delle tube, vasectomie, aborti  sono forse meno crudeli dell’uccisione o dell’abbandono di neonati? "(…)  
Mentre in Europa la gioventù è rampante e il boom demografico  ormai in calo, nella regione di Shandong si fanno ancora i conti fra  il numero degli abitanti e le risorse economiche da dividere. 
La Terra: un unico Pianeta con   Universi  ben distinti. 
In Cina servono figli maschi, perché solo un  figlio per coppia è concesso,  e se fosse femmina sarebbe un peso economicamente gravoso.
Negli  Anni Ottanta (…) “tra i neonati che vengono abbandonati non ci sono maschi. Valutando  la questione superficialmente, si potrebbe dire che la pianificazione delle nascite ha trasformato alcuni genitori in bestie. Analizzando la cosa più in profondità, ritengo che la colpa principale sia da imputare a una mentalità tradizionale e maschilista.… Si tratta di un fenomeno oggettivo, che ….danneggia la gloriosa reputazione della Repubblica Popolare Cinese. …sarà difficile arrestarlo in tempi brevi. Nei villaggi di campagna, sporchi e puzzolenti da far allontanare il cielo, arrugginirebbero persino le spade fatte di diamante. (…). 
E  a tratti l’autore    cade  nella trappola del cinismo (…)” Perché fare gli schizzinosi? Questa era la vita!... la cosa più tragica e terribile di questo mondo è la buona coscienza…Centinaia di persone si trovavano sull’aia…Avevano un’aria di compassione che mal celava il piacere evidente che provavano di fronte allo spettacolo della sfortuna altrui…Mio fratello era morto annegato…La folla era venuta ad assistere allo spettacolo… attirata dall’odore della morte(…).


Il destino degli uomini è deciso dal cielo, e non c’è niente da fare  afferma Mo Yan.












Le rane - Mo Yan

rana e neonato in cinese hanno lo stesso suono – wa “




A volte penso che la scelta di un libro risponda alle stesse leggi che regolano l’amore. Colpo di fulmine, curiosità, emozione e, talvolta , anche delusione. Ho iniziato la lettura di questo testo compiendo il classico salto nel vuoto: poco conosco della Cina, ancora meno ciò che riguarda la sua recente storia politica.
L’autore: nel 2012 riceve un premio Nobel per la letteratura che crea non pochi imbarazzi. 
Mo Yan: uno scrittore che sceglie come pseudonimo due parole, “NON PARLARE” : l’esatto opposto del narrare. 
La motivazione del premio: “ l’ allucinante realismo” delle sue opere, nelle quali, però, la denuncia degli orrori e degli errori commessi dalla Rivoluzione Culturale non mi è parsa affatto gridata, ma anzi sospesa fra le righe. Una fotografia senza ritocchi post produzione.

Leggo:
(…) Nell’autunno del 1962, il raccolto di patate dolci nei duemila ettari della zona a N-E di Gaomi fu eccezionale…Dopo due mesi di scorpacciate di patate, praticamente tutte le donne del villaggio rimasero incinte. All’inizio del 1963 assistemmo al primo boom demografico dopo la Liberazione. Nei 48 villaggi della nostra comune popolare nacquero 2868 bambini. Mia zia li chiamò “ i figlie delle patate dolci”….Quando i genitori andavano alla comune popolare a registrare la nascita dei “figli delle patate dolci” ricevevano un buono per 5 metri di stoffa e un litro di olio di semi di soia. …L’impennata demografica della fine del 1965 mise le autorità sotto pressione. Iniziò la prima ondata di controllo delle nascite dalla fondazione della nuova Cina. Il governo lanciò lo slogan: uno non è poco, due sono giusti, tre sono troppi(…)”.
Da qui “l’allucinante realismo” del racconto prende vita.
Il protagonista, vittima e carnefice di una crudele ragione di stato, scrive “(…)ho voluto, attraverso la narrazione, confessare le mie colpe nella speranza di alleviare il peso dei miei peccati. …La scrittura può essere una forma di riscatto ed è per questo che continuerò a scrivere.(…)” , ma la sua denuncia resta sempre velata dalla inevitabilità dei fatti. 
Le rane: perché questo titolo? (…)”rana e neonato in cinese hanno lo stesso suono – wa “.
La zia-ostetrica aveva fatto nascere migliaia di bambini, per diventare poi la mano del boia, colei che costringeva le donne del distretto ad abortire. Una notte la sua inattaccabile fede al regime viene minata dal gracidio delle rane. 
Null’altro aggiungo.