mercoledì 25 gennaio 2017

La buona terra - Pearl S. Buck


"La buona terra dei campi guarì Wang Lung del suo amore tormentoso, così come già l'altra volta, al ritorno dalla città del Sud, essa lo aveva consolato e sanato"


   
La forza di questo testo del 1931 sta nella narrazione, potente e realistica.
Vincente il fatto d’aver creato una trama ricca di particolari, che si snoda attorno a personaggi credibili.
Pearl Buck, una scrittrice statunitense nata in Virginia nel 1892 e trasferitasi in Cina con i genitori, missionari di fede presbiteriana, conosce, per averla vissuta sul campo, la storia più recente di questo immenso Paese. La sua produzione letteraria è notevole ( le viene assegnato un Oscar nel 1938). Persino il cinema americano nel 1932 si interessa a questo libro, ma la sua traduzione in pellicola sarà boicottata dai dirigenti locali di Shangai, sede di parte dei teatri di posa. La scelta di far vestire le comparse e i protagonisti, che avrebbero dovuto rappresentare il degrado delle campagne cinesi, di abiti lindi e quella di rendere il finale del testo meno tragico, si commentano da sole.
Nel 1937 "The Good Earth" esce nelle sale americane, su produzione della Metro Goldwyn Mayer.
Teatro e fil rouge del testo è la zona settentrionale della Cina, colpita da carestie, dilaniata dal banditismo, divisa fra il lusso di poche famiglie proprietarie di immensi appezzamenti di terreni e la povertà del popolo, analfabeta, affamato, rabbioso, rassegnato.
Il periodo è quello che precede la Rivoluzione Culturale, che scardinerà radici e tradizioni millenarie.
Protagonista del testo è un contadino, Wang Lung, ma a tratti è la sua terra a strappargli le luci sul palco.
La “buona terra”, alla quale egli si aggrappa per sopravvivere, alla quale torna dopo la scelta di spostarsi verso Sud per sfuggire alla fame, alla quale destina ogni soldo duramente guadagnato. La buona terra guarisce ogni sua ferita, lo riporta alla vita, lo trasforma solo esternamente in un invidiato possidente, quando, divenuto vecchio, “ …si era stabilito in città; ed era ormai ricco. Tuttavia le sue radici continuavano ad essere nei campi…”.
La storia è un susseguirsi senza tregua di carestie, alluvioni, malattie.
Gli dei, a cui ogni famiglia del luogo dedicano un piccolo tempio, stanno a guardare impassibili, vestendosi o svestendosi di doni, a seconda del momento, del dramma impellente, della gioia a cui render grazia.
E quali parole per descrivere la scelta della moglie del protagonista di uccidere una delle figlie appena nata, proprio in quanto femmina, proprio perché giunta in un momento in cui altre bocche andavano sfamate e la famiglia era in procinto di trasferirsi.
Di finzione letteraria trattasi, ma la storia di questa famiglia chissà a quante famiglie è realmente appartenuta, chissà se anche le nostre precedenti generazioni, quelle che hanno abitato le nostre campagne, seppur in circostanze e in tempi differenti, l’hanno provata e vissuta.
L’ostinata scelta di servire i genitori e i parenti anziani come fossero divinità, a costo di togliere cibo e attenzioni alla prole più piccola, altro tema che lascia impreparati.
Alle donne la scrittrice dedica molte pagine, alle donne delle campagne, quelle i cui piedi non vengono legati, ma solo perché possano camminare saldamente, perché esse sono mezzo per riprodurre, per accudire. Sono figlie, spose, schiave, merce di scambio; vendute, barattate, abbandonate per disperazione, per mancanza di dignità a loro mai riconosciuta. Tacciono molte di loro e si consumano fra parti e condivisione dei duri lavori nei campi con i mariti, padroni analfabeti e violenti.
Subiscono, una volta non più in grado di generare, l’umiliazione di esser rimpiazzate da concubine giovani, vittime a loro volta di infiniti soprusi.
La storia della famiglia di Wang Lung procede fino al riscatto, alla possibilità di far studiare i figli, affinché siano utili agli affari del padre, gli stessi figli ai quali il protagonista si rivolge, ormai vecchio,   ammonendoli: “Se vendete la terra è la fine.”
a.t.


mercoledì 18 gennaio 2017

Leonardo Caffo - La vita di ogni giorno




(…) In qualche modo l’etica si occupa del movimento "a gruppi" che soggiace alla formazione degli stormi. Gli uccelli in formazione sono uno degli spettacoli più ipnotici e affascinanti che la natura possa regalarci. Migliaia di volatili della stessa specie che si uniscono e si muovono come in una sinfonia eseguita alla perfezione.
(…) Nell’architettura dello stormo non c’è alcun controllo generalizzato, quale potrebbe essere quello indotto da un leader. Tutte le decisioni del gruppo sono determinate collettivamente, attraverso un meccanismo che amplifica la fluttuazione locale. In altre parole, ogni elemento prende come riferimento l’elemento più vicino a lui, cercando di allinearsi nella stessa direzione. Da millenni l’etica cerca di spiegare il comportamento collettivo(…) Tra i viventi di questo Universo vi è un continuo processo di interazione. L’etica, come teoria dello stormo, è il punto di partenza per costruire la vita politica e civile. L’essere umano vive e sopravvive perché ha fatto della fiducia un automatismo alla base della condivisione degli spazi sociali.
(…) La realtà sociale regge, ci regge e ci sorregge. Ogni giorno usciamo di casa sicuri di trovare un autobus che ci porterà al lavoro, un ufficio aperto, luci che illuminano le strade, cassonetti svuotati…
Questa sicurezza, questa certezza che ci sia e ci sarà sempre un movimento a stormo, all’interno del quale ognuno di noi segue un compagno per indirizzare il corpo unitario che componiamo verso un obiettivo più grande, è l’etica.
(…) L’etica non ha dunque come campo d’indagine il dovere ( perché dobbiamo agire, scegliere, decidere…?), ma il "movimento in quanto movimento" ( perché agiamo, scegliamo, decidiamo…?)…