martedì 27 settembre 2016

Manuale di pittura e calligrafia - José Saramago





E’ del 1983 quest’opera di José Saramago. Fanno da sfondo l’Italia e il Portogallo  nel pieno del regime di Salazar.
Manuale di pittura e calligrafia” è un testo particolare, forse il meno lineare di questo autore.
Il tema che ho colto come più impellente: l’impossibilità di rappresentare la vita, di comprimerla attraverso l’uso della parola, di crearne i confini dandole un colore, una forma.

L’io narrante è un mediocre pittore ritrattista, consapevole della sua scarsa genialità, ma deciso a oltrepassare il limite  delle sue banali pennellate, usando la parola.
Quando gli viene commissionato l’ultimo di una serie di ritratti, si rende conto di non conoscere nulla della vita dell’uomo che dovrebbe “ prender forma e colore” sulla sua tela. Il pittore conosce le  regole accademiche necessarie per compensare alla mancanza di estro. Il ritratto commissionato è portato a termine, ma con grande   sofferenza, perché: “ quando comincio un nuovo quadro la tela bianca, levigata, senza alcuna base, è il certificato di nascita da compilare su cui io ( amanuense di un’anagrafe senza archivi) credo di poter scrivere dati nuovi…Ma quella che faccio io non è pittura. …ho sempre creduto di sapere come avrei dovuto dipingere il ritratto giusto, e sempre mi sono costretto di tacere, …davanti al modello inerme che mi si affidava…Solo io sapevo che il quadro era già pronto ancor prima di qualunque seduta di posa e che tutto il mio lavoro si riduceva a mascherare ciò che non si poteva mostrare…
Nel ritrattista, all'improvviso,  scatta una scintilla.
In segreto inizia a dipingere un’altra tela, in cui crede di poter trasferire con le immagini anche le emozioni, il vero, il non raccontabile, il segreto.
I colori e le pennellate si sovrappongono fino al risultato finale: una macchia informe, nera. “Continuerò a dipingere il secondo quadro, ma so che non lo finirò mai. Il tentativo è fallito e non c’è miglior prova di questa sconfitta, o fallimento, o impossibilità, del foglio di carta che mi accingo a scrivere….Non voglio pensare, adesso, a che cosa farò se pure questa mia scrittura sarà un fallimento, se, da allora in poi, le tele bianche e le pagine bianche saranno per me un mondo in orbita a milioni di anni luce…
 “…i due quadri hanno progredito verso la loro fine inevitabile: il secondo ritratto….ammetteva ed esigeva una libertà diversa…La somiglianza era quasi inesistente….io stesso mi ero reso conto di averli dipinti così diversi, ma nel più profondo, sapevo che erano la stessa persona. Eppure bisognava indagare su un certo dubbio: erano la stessa persona grazie alla medesima mancanza di significato…” .
Due ritratti e un foglio da riempire: ecco il passaggio successivo, non meno doloroso, la scelta della parola per raccontare quella verità che attraverso la pittura il ritrattista non è in grado di rivelare.
E un nuovo muro, un altro limite, forse un nuovo traguardo o punto da cui ripartire: “ Probabilmente nessuna vita può essere raccontata, perché la vita è come le pagine sovrapposte di un libro o le stratificazioni di un colore che , appena sfogliate o separate per leggerle e guardarle, si polverizzano e marciscono: viene loro a mancare quella forza invisibile che le legava, vengono a mancare il peso, l’agglutinazione, la continuità. Anche i minuti che non si possono staccare l’uno dall’altro, sono vita, e il tempo sarà sempre un insieme pastoso, denso e oscuro, in cui nuotiamo con difficoltà…" (…) "Ma adesso basta con le domande…ho girato in tondo e sono arrivato al punto in cui ero…Oggi nel mio circolo percorso in tutte le direzioni, so perlomeno dove si trova il muro e dove il limite. Nessuno lo oltrepassa se non lo conosce. E’ la differenza fra il circolo e la spirale.”



a.t.

lunedì 15 agosto 2016

La caverna - José Saramago



"E' la vigilia che noi portiamo a ogni giorno che viviamo..."


"Autoritarie, paralizzanti, circolari e a volte ellittiche, le frasi a effetto sono una piaga maligna,(…) tra le peggiori che hanno infestato il mondo. Diciamo ai confusi Conosci te stesso, come se conoscere se stessi non fosse la quinta e più difficile operazione delle aritmetiche umane; diciamo agli abulici Volere è potere, come se le realtà bestiali del mondo non si divertissero a invertire tutti i giorni la posizione relativa dei verbi, diciamo agli indecisi Comincia dal principio, come se questo principio fosse un capo sempre visibile di un filo male arrotolato e che bastasse tirare e continuare a tirare per giungere all’altro capo…"

La caverna” di Saramago: un altro viaggio surreale dell’autore portoghese, in cui un evento banale scatena, a cascata, una serie di situazioni improbabili, allucinanti.
Unica e inimitabile, come sempre, la sua scrittura, caratterizzata da concetti ripetuti, ripresi, rielaborati, e da scene dai ritmi lenti, statici, fotografici, perché “ a paragone con la velocità istantanea del pensiero, che prosegue in linea retta fino a quando sembra aver smarrito il nord( ma lo crediamo noi perché non capiamo che il pensiero, correndo in una direzione, sta avanzando verso tutte le direzioni) …dicevamo, a paragone, la povera parola ha sempre bisogno di chiedere il permesso a un piede per far avanzare l’altro, eppure inciampa continuamente, esita, s’intrattiene a girare attorno ad un aggettivo, a un tempo verbale…"

Cipriano Algor e Marçal Gacho sono i due protagonisti maschili e “ come si sarà notato, sia l’uno che l’altro hanno appiccicati al nome proprio dei cognomi insoliti di cui ignorano le origini, il significato, la ragione. La cosa più probabile è che si dispiacerebbero se mai giungessero a sapere che algor significa freddo intenso nel corpo, preannuncio di febbre, e che gacho è né più né meno la parte del collo del bue su cui poggia il giogo”.

La vita di Cipriano, un vasaio che fornisce il suo vasellame al “Centro”, cambia improvvisamente quando si vede rifiutare, senza possibilità di replica, l’ultima  fornitura.
Il Centro è un'enorme comunità in cui pare tutti ambiscano andare a vivere, in cui tutto è programmato, perfetto, plastico ( il rimando al G.F. di Orwell è immediato). Il Centro    inghiottisce vite ed emozioni e genera leggi, regolamenti, protocolli, slogan.
Per sopravvivere il vasaio è costretto a trasferirsi proprio in questo luogo con la figlia e il genero , che qui vi lavora come vigilante. 
I suoi sotterranei celano una caverna: Platone e il suo mito rischiano di essere impacchettati e rivenduti come nuova, sensazionale, attrazione turistica, mentre Cipriano compirà la sua scelta.

a.t.

domenica 17 luglio 2016

I cento sensi segreti - Amy Tan

...E se solo riesco a ricordare di guardare il cielo e meravigliarmene, lo posso usare come bussola.
Posso trovare la mia strada attraverso il caos, qualunque cosa accada.
Posso sperare con tutta l’anima che il cielo sarà sempre lì, per tirarmi su...






Un romanzo magico: questo è scritto nella nota che accompagna “I cento sensi segreti” di Amy Tan. Non so quanto sia centrata questa definizione: certamente la storia è complessa, ricca di contrapposizioni fra radici culturali agli antipodi e di ricordi che paiono allucinazioni schizofreniche, più che testimonianze del tempo passato.

Olivia, una bimba di San Francisco, figlia di una strampalata donna americana che passa da un fidanzato all’altro, sempre rigorosamente straniero, e di un padre cinese, si ritrova improvvisamente a convivere con la sorellastra Kwan.
Il padre l’aveva abbandonata in Cina, prima della sua fuga oltreoceano ed ora, morente, chiede clemenza per lei, chiede che sia adottata in un Paese che potrebbe donarle un’opportunità di riscatto.
Kwan è già una donna quando giunge nel nuovo continente, una strana creatura che stenta ad integrarsi con lo stile di vita americano e ad apprenderne il linguaggio.
Così fragile perché diversa, ancorata ad usi e costumi dal sapore antico che scatenano l’ilarità di chi la circonda e non si degna di guardare al suo mondo come ad una differente opportunità di vita.
Ingenua al punto da sembrare ritardata, sottoposta persino ad elettroshock, perché creduta pazza.
Kwan e la sua vita in salita, con un passato colmo di dolore, di abbandoni e delusioni.
Kwan che non smette di amare e adorare la sorella trovata, neppure quando il suo amore viene platealmente respinto.
Continua ad usare la sua lingua madre, ma non come scudo per proteggersi, ma come schermo per proiettare il suo sentire e avvicinare la piccola Olivia alla sua profonda spiritualità, ai suoi quotidiani contatti con il mondo yin, popolato di creature che non riescono a lasciare definitivamente questa vita.
Il racconto si perde talvolta negli abissi di fantasmi del passato e di presenze ingombranti, che condizioneranno le due sorelle per tutta la vita.
Il libro ha un’idea di fondo convincente: offrire un’altra opportunità a chi non ha saputo amare nella vita precedente, o non ha potuto, o non è riuscito per mancanza di coraggio. Vite spezzate in modo tragico che confluiscono in nuove vite; anime che passano da un’esistenza all’altra, rincorrendosi, perdendosi per un soffio.
Promesse di incontri futuri e un viaggio in Cina che dovrebbe ripianare gli errori del passato e fornire un’ occasione di riscatto.
La trama rimbalza, purtroppo non sempre in modo logico, da un piano temporale all’altro: la Cina e l’Occidente, il presente e il passato, si intersecano con scarsa armonia, appesantendo l’effetto narrativo.

Per concludere,  una frase presa dal penultimo capitolo, che merita per la sua particolarità: a Olivia, donna matura, lascio la parola:

(…) Ora sto guardando i cieli di nuovo… questo è lo stesso cielo che vede Simon in questo momento…
lo stesso cielo che vede Kwan, che hanno visto tutti i suoi spiriti…
Solo che ora non ho più la sensazione che sia uno spazio vuoto per le speranze o un fondale per le paure.
Vedo ciò che è così semplice, così ovvio.
Tiene su le stelle, i pianeti, le lune, tutto ciò che fa parte della vita, per l’eternità.
Posso trovarlo sempre, mi troverà sempre.
E’ qualcosa che continua, luce dentro l’oscurità, oscurità dentro la luce.
Non promette altro che di essere costante e misterioso, spaventoso e miracoloso.
E se solo riesco a ricordare di guardare il cielo e meravigliarmene, lo posso usare come bussola.
Posso trovare la mia strada attraverso il caos, qualunque cosa accada.
Posso sperare con tutta l’anima che il cielo sarà sempre lì, per tirarmi su
…(…)


sabato 2 luglio 2016

Il ponte di San Luis Rey - Thornton Wilder





"Venerdì 20 luglio 1714, a mezzogiorno, il più bel ponte del Perù si spezzò, precipitando cinque viaggiatori nell'abisso sottostante."
Questo tragico episodio  interrompe all'improvviso il corso della vita dei protagonisti del libro. Un unico destino unisce i fili delle loro vite passate e prolunga verso l'infinito "quel moto d'amore che torna all'Amore che lo ha creato".
Esistenze complicate, intrecci, gelosie, orgoglio: nodi che con fatica si sciolgono pochi istanti prima che la morte diventi  "istante perfetto".

venerdì 24 giugno 2016

L'enigma del solitario - Jostein Gaarder

E’ là che dovremmo stabilire la nostra dimora e non sul mucchio di sabbia quaggiù, dove il tempo divora tutte le cose che amiamo




Una storia nella storia, come è nello stile di Jostein Gaarder, a cui piace mescolare le carte e fornire molteplici visioni di ogni singolo dettaglio.

Un viaggio reale di un padre, uomo fuori da ogni schema razionale, che alterna stati di totale annegamento nell’alcool ad altri di elevate visioni filosofiche del vivere, e di suo figlio, un fragile adolescente che ancora non comprende il senso della durezza della vita.

Un viaggio dalle terre del nord Europa fino ad Atene, simile ad una discesa nel proprio io, alla scoperta di una coscienza comune, oltre che alla disperata ricerca di una donna, di una madre e moglie, fuggita senza lasciare traccia.
Personaggi che intrecciano a loro insaputa il proprio presente e passato e che si scoprono parte di un unico destino.
Il destino, termine così fragile, così difficile da imbrigliare.
Il destino che ha voluto che un padre e suo figlio si mettessero in viaggio, lo stesso che lega il lettore a questo libro, il destino che scrive di ognuno di noi, ogni giorno, nuove pagine. Così il protagonista cerca di spiegare al proprio figlio il senso dell’esistere ora, in questo preciso istante, su questa terra: “…le probabilità che uno solo dei tuoi antenati morisse negli anni dell’infanzia erano vertiginosamente alti…da questo punto di vista, Hans Thomas, sei stato a un passo dalla morte cento miliardi di volte…eppure ora sei qui, seduto a parlare con me!...Ti sto descrivendo un’unica lunga catena di eventi fortuiti. In realtà, quella catena risale fino alla prima cellula che si divise in due, dando il via a tutto quanto ora cresce e germoglia su questo pianeta. Le probabilità che, nel corso di tre o quattro miliardi di anni, la mia catena non si spezzasse erano talmente infime da risultare pressoché impensabili. Eppure ce l’ho fatta, per la miseria!...e la mia ricompensa è l’incredibile fortuna di vivere su questo pianeta insieme con te. …e se la gente si occupa tanto di fenomeni soprannaturali, ciò è dovuto a uno strano tipo di cecità. Non coglie il mistero più grande e cioè che esiste un mondo. Preferisce occuparsi di marziani e di dischi volanti, piuttosto che dell’insondabile creazione dispiegata davanti agli occhi. …No, non credo che il mondo sia dovuto al caso. Credo invece che all’origine dell’universo ci sia un progetto…”(…).
Ma dove è scritto questo progetto? Dove risiede “il grande illusionista” che il protagonista sta cercando?
(…)“ …spero un giorno di riuscire a smascherarlo, anche se non è facile scoprire il trucco quando un mago non compare neppure sul palcoscenico!”(…)

Un viaggio narrato, infine, anche grazie ad un minuscolo libro che Hans legge con una lente di ingrandimento. Un dettaglio che rende magico un fatto in sé banale e che introduce in un mondo che altro non è che la proiezione dei propri pensieri.
Il regno descritto nel micro libro ricorda il mondo di Alice, in cui si muovono creature fantastiche: carte da gioco, con i loro simboli e colori, che diventano esseri capaci di azioni, ma privi di senso logico proprio.
E poi il Jolly, un misterioso essere di cui è meglio non rivelare altro.

Chiudo qui questo mio riflettere, riportando le parole del padre di Hans:
(…) da qualche parte, su un mucchio di sabbia, un bambino costruisce castelli. Ogni volta che fa un castello nuovo, lo guarda per un istante, tutto fiero, e poi lo distrugge, gettandogli sopra un secchiello di acqua. Allo stesso modo, il tempo ha usato la terra per fare i suoi esperimenti. …Un mago ci fa spuntare dalla sua manica e ci fa sparire nel suo cappello. C’è sempre qualcosa in fermento che aspetta di prendere il nostro posto. Perché noi non posiamo i nostri piedi su un terreno saldo, ma nemmeno sulla sabbia. Noi siamo sabbia….Possiamo sfuggire ai re e agli imperatori e forse anche a Dio. Ma non al tempo: Il tempo ci vede ovunque, perché tutto intorno a noi affonda in quest’elemento senza fine.(…) Il pensiero però non fugge. I filosofi di Atene erano convinti dell’esistenza di qualcosa che non scorre via. Platone lo chiamava “ il mondo delle idee”. Non è il castello di sabbia a essere importante, bensì la rappresentazione del castello che il bambino aveva in mente….Noi portiamo dentro l’idea che tutte le cose intorno a noi potrebbero essere fatte meglio…E sai perché? …perché tutte le rappresentazioni che abbiamo in noi ci vengono dal “ mondo delle idee”. E’ là che dovremmo stabilire la nostra dimora e non sul mucchio di sabbia quaggiù, dove il tempo divora tutte le cose che amiamo.”(…)

a.t.

venerdì 10 giugno 2016

Jostein Gaarder - Il mondo di Sofia

(…) -“Che cos’è questa materia del mondo? Che cos’era ciò che esplose miliardi di anni fa? Da dove viene?”
- “Questo è il grande mistero”
- “Ma è qualcosa che ci coinvolge profondamente, perché anche noi siamo fatti di questa materia; siamo una scintilla di quel grande falò che venne acceso molti miliardi di anni fa.” (...)





Una storia come potrebbero essercene tante: un’adolescente, un filosofo, il lungo cammino tracciato dai grandi pensatori del passato e del presente da ripercorrere.
Qual è il destino dell’uomo, quale la sua origine? Esiste un “principio”, un “eterno”, una “fine”?
Sofia e Alberto: la loro vita pare vera, ma è solo la trama di un libro che un padre, Albert, ha scritto per il quindicesimo compleanno della figlia, Hilde.
I dialoghi fra Sofia e Alberto e il loro ragionare sulle domande che hanno accomunato gli uomini fin dalla antichità, sono un’occasione per avvicinare Hilde ai grandi quesiti della Vita.
Dagli atomi di Democrito, alle idee di Platone fino all’esistenzialismo di Sartre, il libro di Albert è una singolare lezione accademica, ma il vissuto di Hilde, che legge di Sofia, che discute con Alberto nel romanzo di Albert, fanno tutti parte di una storia nella storia: il romanzo di Jostein Gaarder.
E quando ogni dettaglio pare ben delineato, Sofia e Alberto sfuggono al controllo del loro ideatore-scrittore, creandosi una nicchia di vita propria.
Qual è dunque la realtà? Quella che percepiamo? Quella che viviamo? Quella che altri hanno creato per noi? Quella che noi costruiamo nella nostra mente?

giovedì 21 aprile 2016

Walter G. Pozzi - Carte scoperte


La mente umana cede impotente al risucchio di una storia…” scrive Jonathan Gottschall in “L’istinto di narrare” e i personaggi della finzione narrativa, pur essendo “persone d’inchiostro, che fanno lavori d’inchiostro, vivono in case d’inchiostro, con problemi d’inchiostro e quando si feriscono, sanguinano inchiostro, hanno una presenza reale nel nostro mondo, lo influenzano persino”.

Se un libro riesce dunque a creare una storia e ad animarla di personaggi capaci di narrare, di smovere le coscienze, di indignare –persino- si arriva all’ultimo capitolo con l’impressione di dire addio ad una parte della nostra vita.
Il che non è scontato: in alcuni testi le parole restano solo inchiostro, pagine trasparenti, prive di radici.
Già in altre occasioni ho precisato di aver iniziato un libro in punta di piedi. Leggere di drammi altrui, di vite in bilico e non poter cambiare il corso degli eventi, suggerire vie d’uscita ai protagonisti, agevolare certi percorsi, mi disarma, mi fa sentire impotente. E’ un po’ come se avessi la pretesa di rimodellare il finale di ogni libro che mi passa fra le mani, per renderlo compatibile al mio sentire.
Ma avvicinarmi a “libri per me impossibili” provoca pur sempre la scintilla di cui ho bisogno, di cui mi nutro; equivale a solcare mondi e modi di pensare diametralmente opposti al mio; è l’occasione di far nascere in me nuove domande.
Carte scoperte” di Walter G. Pozzi è un libro tosto, che ho più volte chiuso, proprio per la sensazione di non poter interagire, e poi ho riaperto, costringendomi all’ ascolto.
Un cupo  mondo di personaggi dai nomi originali, a volte impronunciabili, anima un circolino di nostalgici del Pci. La politica per alcuni di loro non è solo uno sfondo, un pretesto per discutere e confrontarsi, ma è un marchio, una necessità, un rimpianto.
Scampoli di vita raccontati attorno ad un tavolo, davanti ad un bicchiere, con un mazzo di carte.
Nel circolo Garibaldi si scandaglia la recente storia italiana, ci si indigna per lo sgretolamento della sinistra, si discute del nuovo mercato del lavoro, di flessibilità, di guerra in Afghanistan, di G8 .
La televisione trasmette in diretta il crollo delle Torri Gemelle: lo sgomento, l’incredulità, il dubbio e “per l’ennesima volta veniva distribuita alla gente una verità unica e indiscutibile…
Il pensiero del protagonista Mario rimbalza subito alla strage di Piazza Fontana: scenari diversi, luoghi geografici agli antipodi, ma stessa sequenze. Il terrore e l’incredulità della gente e l’ immediata reazione dello Stato.
Cos’hanno in comune l’esplosione in una Piazza di Milano di qualche anno prima e i grattacieli di New York violati dagli aerei?... ” stavano ancora per arrivare le ambulanze, e già la polizia spediva i suoi uomini a arrestare gli anarchici “ … Le Torri non sono ancora crollate e già arrivano a raffica le immagini del nuovo nemico-Bin Laden.
Ecco come ”l’invadenza della televisione, la potenza delle sue immagini, contribuiscono a istallare il meccanismo della ‘memoria’ a scapito della Storia”.
Il mio appunto finale va al contrasto umano fra il protagonista Mario, un sessantenne che ha perso famiglia e lavoro  a causa di scelte di vita che non mi compete giudicare, e suo padre, un  ex-partigiano di ferro.
Mario ne esce distrutto; è l’anti-eroe, ai margini della vita. Seppur ripulito dalle colpe passate, Mario non ha saldato i conti con se stesso.
Fugge, continua a fuggire per tutto il racconto e anche oltre.
Sopravvive giocando a carte, ma non vuole “rientrare in gioco”. Sfugge alla burocrazia che ancora gli sta alle costole, diventa un'ombra.
Mario prova pena per il padre “ La Costituzione! La Patria. Povero papà…dovresti vederla adesso, la tua Patria”  ma non fa nulla di concreto perché il mondo cambi. Ha abbandonato ogni sfida.
Il Mondo! Altra parola vuota, come lo erano anche Società, Buon Senso, Famiglia, Patria, Dio…Certo, la sua esperienza aveva trasformato queste parole in sacchi flosci che, qualunque contenuto provasse a mettere loro dentro, si ostinavano a non stare in piedi. E lo colpiva come, passando gli anni, il numero delle parole prive di consistenza fosse andato aumentando. Ma doveva essere così solo per lui, dato che, per molti suoi conoscenti, le parole sembravano al contrario solidificarsi e quei sacchi diventare sempre più pieni.
A Mario è mancata anche, soprattutto, quella definizione per il quale il padre tanto ha combattuto: IDEALISTA: “ Il padre stava compilando le parole crociate quando si era platealmente arenato su questa definizione : individuo che insegue sogni irrealizzabili. Nove lettere, delle quali quattro già scritte : d a st.
Il cruciverba rientrava nella parte ludica in un quotidiano a tiratura nazionale, filogovernativo con ambizioni di imparzialità…E in questo particolare risiedeva la ragione dell’irritazione paterna. Non poteva credere che la parola nella quale si era identificato per una vita rispondesse ad una simile definizione…. leggi, questa è la definizione giusta: mosso da un altro fattore
’’  ( da un vecchio vocabolario edito nel 1972) . E sempre il padre, a ribadire il suo sdegno: 

 Non mi interessa l’intenzione dell’imbecille: conta il risultato. Il problema non sta nel fatto che pensino, ma proprio nel fatto che non pensino. Secondo questo ’’solamente un cruciverba’’ negli ultimi trent’anni io mi sono trasformato, senza accorgermene, in un povero cretino!”.

domenica 21 febbraio 2016

Milan Kundera - L'insostenibile leggerezza dell'essere




(…)Le vite umane sono costruite come una composizione musicale. L’uomo, spinto dal senso della bellezza, trasforma un avvenimento casuale in un motivo che va poi a iscriversi nella composizione della sua vita. Ad esso ritorna, lo ripete, lo varia, lo sviluppa, lo traspone, come fa il compositore con i temi della sua sonata.(...)
 (...)L’uomo senza saperlo compone la propria vita secondo le leggi della bellezza persino nei momenti di più profondo smarrimento. Non si può quindi rimproverare ad un romanzo di essere affascinato dai misteriosi incontri di coincidenze, ma si può a ragione rimproverare all’uomo di essere cieco davanti a simili coincidenze della vita di ogni giorno, e di privare così la propria vita della sua dimensione di bellezza. (…)

mercoledì 17 febbraio 2016

José Saramago - Le intermittenze della morte



«Sapremo sempre meno che cos’è un essere umano»



Le intermittenze della morte – un romanzo ironico e sarcastico sul tema della morte e della sua temporanea latitanza, in cui un evento assurdo finisce con il diventare logico.

«Il giorno seguente non morì nessuno. Il fatto, poiché assolutamente contrario alle norme della vita, causò negli spiriti enorme turbamento…»
Con questa affermazione si apre il romanzo di José Saramago (1922- 2010) narratore, drammaturgo e poeta portoghese, premio Nobel per la Letteratura nel 1998.

L’ambientazione è omessa: la morte si è presa una pausa, regalando un'inaspettata eternità in un Paese non definito, ai confini del quale il ciclo della vita continua invece ignaro. L’evento narrato possiede uno sfumato tempo d’inizio, che coincide con la mezzanotte di un 31 dicembre, e una fine inusuale, che si trasforma in un tempo sospeso.
Attorno a questo fatto irrazionale ruota il romanzo, interamente scritto, quale tratto distintivo dell’autore, in assenza dei convenzionali segni di punteggiatura , con discorsi diretti e indiretti che si fondono in lunghe frasi senza pause.
Lo stile narrativo contribuisce a creare pathos, ma pure ad appesantire, a tratti, la lettura.

La morte, volutamente, è scritta e si firma essa stessa con l’iniziale minuscola, perché «le morti di ciascuno sono morti per così dire dalla vita limitata, subalterne, muoiono con colui che hanno ammazzato, ma al di sopra di esse ci sarà una morte più grande, quella che si occupa dell’insieme degli esseri umani… Quella che distruggerà l’universo, che realmente merita il nome di Morte, anche se quando ciò accadrà non si troverà più nessuno a pronunciarlo…»

Un’assenza e una presenza si alternano in tutto il romanzo: manca la morte come fatto e compare materialmente la morte nelle vesti di uno scheletro prima, di una donna successivamente.
I personaggi, legati insieme da questa paradossale situazione, restano in vario modo intrappolati a progettare e ragionare intorno alla nuova e anomala realtà. L’ immortalità presto si trasforma in dramma e le tragedie singole si intrecciano ai dolori collettivi.
 «In tal caso, intervenne un filosofo dell’ala ottimista, perché vi spaventa tanto che la morte sia finita, Non sappiamo se è finita, sappiamo solo che ha smesso di ammazzare…»

Il decadimento umano però non si ferma: la malattia non è sconfitta, gli incidenti, le sofferenze, i dolori continuano. La classe politica è preoccupata e sconcertata di fronte a cambiamenti epocali che non è in grado di gestire, arrivando a prendere accordi con una non ben identificata maphia. La Chiesa appare sgomenta di fronte alla notizia: non può più predicare la vita eterna dell’anima giacché i corpi stessi sono diventati eterni. Per la «dottrina» l’assenza della morte diventa immediatamente più insopportabile della sua presenza.

«Senza morte, mi ascolti bene, signor primo ministro, senza morte non c’è resurrezione, e senza resurrezione non c’è chiesa»

Nel gioco di situazioni imprevedibili la voce narrante lascia talvolta spazio a quella dell’autore che chiede complicità ai lettori, lanciando una sfida: accettare le sue proposte narrative, perché diventi coerente il fatto assurdo. Come in altre opere Saramago, attorno a un evento surreale, ricrea una storia di cui è superfluo chiedersi il motivo. Scandagliare il pensiero umano è il suo unico fine narrativo.

«E’ così che solo un’educazione raffinata, di quelle che ormai stanno diventando rare, unitamente, forse, al rispetto più o meno superstizioso che la parola scritta suole infondere nelle anime timorate, abbia portato i lettori, benché non mancassero loro i motivi per manifestare espliciti segnali di mal repressa impazienza, a non interrompere quello che abbiamo fin qui riferito…»

Anche lo scrittore prende la parola in merito alla morte: «A proposito, non resistiamo a rammentare che la morte, di per sé, da sola, senza alcun aiuto esterno, ha sempre ammazzato molto meno dell’uomo»
E la stessa morte, quasi a scusarsi con l’umanità intera: «C’è un punto su cui mi sento in obbligo di riconoscere il mio errore, il quale punto ha a che vedere con l’ingiusto e crudele procedimento che stavo seguendo, vale a dire togliere la vita alle persone a tradimento, senza preavviso…» 

La parentesi di eternità dura sette mesi, dopo i quali la morte torna dunque all’opera grazie a missive dal colore violetto.

«D’ora in poi tutti quanti saranno avvertiti e avranno la scadenza di una settimana per mettere in ordine quanto ancora gli resta di vita…»

Ancora la voce dell’autore, quasi a ribadire l’assoluta ovvietà dei fatti e a chiedere  consenso ai lettori: «Ma la morte non ha alcuna necessità di essere crudele, a lei, togliere la vita alle persone basta e avanza… E ora, concentrata come dovrà essere sulla riorganizzazione dei suoi servizi di appoggio dopo la lunga sosta di sette mesi, non ha occhi né orecchie per le urla di disperazione e di angoscia degli uomini… e delle donne che, uno dopo l’altro, vengono avvisati della morte prossima...»

Senonché anch’essa, dopo aver dichiarato «io sono la morte, il resto è nulla» incappa in un imprevisto e deve vestire i panni di una vulnerabile donna, che condurrà il lettore a un finale non scontato, legato a una lettera rinviata al mittente per tre volte.

(Pubblicato su VORREI - culture- 15-06-2013)

Italo Calvino - La giornata d'uno scrutatore

"l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che gli diamo






Per scrivere una storia così breve, ci ho messo dieci anni, più di quanto avessi impiegato per ogni mio altro lavoro. La prima idea di questo racconto mi venne proprio il 7 giugno 1953. Fui al Cottolengo durante le elezioni per una decina di minuti. (…) ero candidato del Partito Comunista… assistetti a una discussione… fu lì che mi venne l’idea del racconto. Provai a scriverlo, ma non ci riuscii… Pensai che avrei potuto scrivere solo se avessi vissuto veramente l’esperienza dello scrutatore che assiste a tutto lo svolgimento delle elezioni lì dentro.
L’occasione nel ’61. Passai al Cottolengo quasi due giorni e fui anche fra gli scrutatori che vanno a raccogliere il voto nelle corsie… Il risultato fu che restai completamente impedito dallo scrivere per molti mesi… Insomma, prima ero a corto di immagini, ora avevo immagini troppo forti.
Ho dovuto aspettare che si allontanassero, che sbiadissero un poco dalla memoria… ho dovuto far maturare sempre più riflessioni… come un seguito di onde o cerchi concentrici…


Ecco il Calvino della mia maturità, così diverso da quello conosciuto sui banchi di scuola.
Non più lo stupore nel seguire un funambulo gentiluomo arrampicato sugli alberi; né la commozione per quel guerriero spaccato a metà da una cannonata; né l’illusione d’incrociare la via tracciata da un cavaliere inesistente.
È un uomo qualunque quello che ho ritrovato in questo testo, un attivista moderato di un partito di sinistra non ben specificato, scelto per ricoprire il ruolo di uno scrutatore al Cottolengo.

Anno 1953.
In una giornata piovosa ha inizio il viaggio di Amerigo (e con il nome che gli è stato affidato, altro non avrebbe potuto fare) attraverso “un’Italia nascosta … il rovescio di quella che si sfoggia al sole, che si ammira per le strade e che pretende e che produce e che consuma; che era il segreto delle famiglie e dei paesi …
Un viaggio che ha dell’assurdo, dell’irragionevole: se avessi letto il libro senza conoscerne l’autore, lo avrei associato a Saramago.
Calvino si scontra con l’infelicità, si chiede quanto pesi su ognuno di noi la responsabilità di generare nuove vite, fa suo il dolore di chi è reietto, condannato all’ombra, inconsapevole pedina di questa nostra esistenza, eppure sfruttato per creare numeri, voti, potere.
non avevo mai osato sfiorare questi temi prima d’ora. Non dico ora d’aver fatto più che sfiorarli; ma già l’ammettere la loro esistenza, il sapere che si deve tenerne conto, cambia molte cose.”

Questo breve romanzo è un concentrato di polemiche, di fatti politici, memorie storiche, di confini invalicabili fra la città-dell’homo-faber - che si è arrogata il diritto di conoscere in modo esclusivo il segreto del “fuoco … senza il quale le città non si fondano, né le ruote delle macchine vengono messe in moto” - e il mondo-Cottolengo, antitesi della” vanità del tutto”.
Sul finire del viaggio l’approdo all’amore in due diverse sfumature, a quell’amore che non porta traccia di pensiero razionale.
Vagando tra le corsie come membro del seggio, il protagonista scorge una suora che ha fatto del Cottolengo il suo luogo di missione. L’amore come scelta.
Poi un anziano padre che “non aveva scelto nulla, perché il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove, ma faceva alla domenica il viaggio per veder masticare suo figlio”. L'amore come  necessità, come conseguenza inevitabile.
Seduti ai lati del letto, in modo da potersi reciprocamente guardare con l’angolo dell’occhio, due esseri legati dal sottile filo di un altro tipo d’amore. “Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore." E poi: " l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che gli diamo”.

( pubblicato su VORREI - Il mio #Calvino IV. La giornata di uno scrutatore)

Hermann Hesse - Demian

"Eppure, non volevo tentar di vivere se non ciò che spontaneamente voleva erompere da me.
Perché era tanto mai difficile?”


Demian , un libro ricco di significati e di simboli; un mosaico incentrato sulla crisi esistenziale, intesa non come sconfitta, ma come cambiamento, elevazione.
L’ apertura del romanzo è un inno alla vita e all’irripetibilità di ogni essere umano.
Ogni uomo però non è soltanto lui stesso; è anche il punto unico, particolarissimo, in ogni caso importante, curioso, dove i fenomeni del mondo s’incrociano una volta sola, senza ripetizione” .
Il concetto viene poi ribadito poche righe dopo, laddove il fulcro dell’esistenza di ogni uomo si identifica con il personale “mettersi in gioco” :
La vita di ogni uomo è una via verso se stesso, il tentativo di una via, l’accenno di un sentiero. ..Tutti noi abbiamo in comune le origini, le madri, tutti veniamo dallo stesso abisso: ma ognuno, tentativo e rincorsa dalle profondità, tende alla propria meta. Possiamo comprenderci l’un l’altro, ma ognuno può interpretare soltanto se stesso”.
E ancora : ”ciò che la natura vuole dall’uomo sta scritto in ognuno, in me in te” .

Il filo conduttore di tutto il romanzo è il concetto di “cammino”, da intendersi principalmente come ricerca dell’Io, scisso fra il bene e il male, fra il sentirsi “parte” e l’esser “esclusi.
Il cammino è quello che intraprende il protagonista, che a soli dieci anni si scontra con due mondi che convivono fra le mura in cui abita.
Molti sperimentano la morte e la rinascita, che sono il nostro destino, una volta sola nella vita, quando cioè l’infanzia si decompone e lentamente crolla.” … “Due mondi vi si confondevano e da due poli arrivavano il giorno e la notte.”
Da una parte una madre, un padre con  il loro rigore morale, la parola della Bibbia  quotidianamente vissuta e imposta, il senso di perfezione e di sicurezza proprio del focolare domestico.
 Dall’altra, le storie di spiriti, le voci di scandali, la dissolutezza, gli incontri che sconvolgono la vita.

Così cadono le fronde intorno all'albero in autunno: esso non ne sa nulla, la pioggia lo bagna o lo colpisce il sole o il gelo, la vita gli si ritrae lentamente in uno spazio minimo e intimo. Esso non muore. Aspetta.”

Gabriel Garcia Marquez - L'amore ai tempi del colera



''..Capita che sfiori la vita di qualcuno, ti innamori e decidi che la cosa più importante è toccarlo, viverlo, condividere le malinconie e le inquietudini, arrivare a riconoscersi nello sguardo dell'altro, sentire che non ne puoi più fare a meno... e cosa importa se per avere tutto questo devi aspettare cinquantatré anni, sette mesi e undici giorni notti comprese?...''



Dopo “Cent’anni di solitudine” solo la curiosità mi ha spinto a iniziare  “L’amore ai tempi del colera” .
Affrontare Marquez significa fare i conti con il suo stile   “monumentale”, con una scrittura  cupa,   non sempre scorrevole, a tratti pesantissima, con i 
salti temporali che disarmano, con inaspettate invenzioni letterarie, con la passione che trasborda e domina  ogni altro sentimento.

Il romanzo parla d'Amore, ma inteso come legame incompreso, causa persa, battaglia da portare a termine tenacemente. Un Amore che lascia senza fiato, capace di 
infrangere il muro del tempo e della ragione, di restare puro, pur attraversando umiliazioni, negazioni, brutture della vita . 
Il protagonista,  non è certamente un santo…perché, scrive Marquez, “ il cuore ha più stanze di un casino!", ma è proprio questo suo duplice, o meglio, molteplice tratto  che eleva e lo distingue.
La frase sopra riportata è il culmine della storia, l'elemento per cui vale la pena di arrivare al termine del romanzo. Dà un senso e una spiegazione alla tenacia del protagonista: ci mostra quell' Amore che 
chiunque vorrebbe per sé e, forse, vorrebbe esser capace di donare!

Konrad Lorenz - L'anello di Re Salomone



(...) "Come sarei grato al mio destino se anch'io nella mia vita ... potessi scoprire una sola "corrente ascensionale" che in un lontano futuro aiutasse qualcuno a prendere quota" (...)
 K. Lorenz – L’anello di Re Salomone - 1967



(…)mi stendo sulle verdi rive di un ramo secondario del Danubio, quasi fiabesco nella sua realtà, in un paesaggio primordiale in cui manca il minimo richiamo alla civiltà umana, e a volte riesco ad operare quel miracolo cui tendono, come a una meta superiore, i più grandi saggi dell’Oriente: senza che mi addormenti, il mio pensiero si dissolve nella natura circostante, il tempo si arresta e non significa più nulla. Quando il sole tramonta non so più se sono passati dei secoli o degli anni. Questo animalesco nirvana costituisce il migliore contrappeso al lavoro intellettuale, ed è un vero balsamo per le molte piaghe che, nella sua corsa affannosa, l’uomo moderno porta nell’anima.(…)

Alejandro Jodorowsky - La danza della realtà

(…) l’amore: è la gratitudine perché l’altro esiste.(…) 



Ci sono testi che ti stendono, come un pugno nello stomaco e forse per questo vale la pena consumarne le pagine fino alla fine. In questa autobiografia Jodorowsky si riflette in un mondo di eccessi, dove nulla è banale, dove tutto è vissuto con passione, oltre la ragione. Il suo narrare ferisce per la crudeltà di certe immagini e, insieme, commuove quando sfiora con delicatezza temi quali l’amore, le relazioni familiari, la vita, la morte.
Difficile per me comprendere certi passaggi: le mie radici culturali sono lontane dal considerare la psicomagiaatto curativo” o le terapie a base di allucinogeniarte che eleva”.
Fin da subito la ragione mi ha imposto quelle stesse barriere che J. ha tentato di valicare con i suoi gesti estremi, con le sue follie poetiche, con le sue truci rappresentazioni teatrali. Alla fine ho dovuto abbassare tali barriere, per poter proseguire la lettura, per poter arrivare fino in fondo, per poter ricevere quella scossa che, egoisticamente, pretendo sempre quando intraprendo un viaggio attraversando un libro.
E chiusa l’ultima pagina, ancora inondata da sentimenti contrastanti, dal rifiuto- all’ammirazione, dall’orrore- alle lacrime, faccio mio un suo pensiero, ricordando chi non è più accanto a me:
 “ …nella misura in cui gli altri ci ricordano, noi viviamo. Se ci dimenticano, ci sentiamo morire. Nel mondo onirico succede la stessa cosa. Se l’inconscio è collettivo e il Tempo eterno, si può dire che ogni creatura nata e morta sia rimasta incisa nella memoria cosmica che ogni individuo reca dentro di sé. Oserei dire che ogni morto attende nella dimensione onirica che una coscienza infinita si ricordi finalmente di lui.
Alla fine dei Tempi…nessun essere, per quanto insignificante, verrà dimenticato.”

martedì 16 febbraio 2016

William McIlvanney - Il regalo di Nessus


"Sapere esattamente ciò che si sta facendo è un modo per perdersi lo stupore del meraviglioso e del sorprendente che ogni individuo crea - il magico flusso senza fine in cui tutti noi viviamo."
William McIlvanney - (prefazione a Shades of Scotland )


  


Ma cos’è che ci succede?... Noi iniziamo come persone reali. Cos’è che occulta i nostri stessi sogni, ingabbiandoci in un cliché, e rendendoci riluttanti al confronto reciproco?... E’ strano pensarci adesso…Un tempo eravamo persone.
“Spaventosamente sincero” lo definisce The Times. Concordo, aggiungendo che, per ragioni personali, solitamente glisso simili letture. Mi turba leggere degli abissi altrui, delle storie familiari che falliscono, dei tradimenti, delle crisi che esplodono in personaggi al di sopra di ogni sospetto, che hanno una carriera consolidata, una famiglia, un tetto, una buona posizione sociale, dunque nessun motivo apparente per nutrire e coltivare un disastro esistenziale che porti al baratro.
Mi blocca una sorta di pudore-rispetto, forse la volontà di un non-giudizio.
In questo caso sono stata attratta e coinvolta più che dalla trama, dallo stile narrativo di McIlvanney, così lontano dai suoi contemporanei Bukowski, Kerouac, Osborne ( giusto per ricordane alcuni).
E’ stato questo suo tratto unico e distintivo che ha accompagnato il mio viaggio, non sempre facile: la scelta di un lessico ricercato, di continui e quasi ossessivi paragoni, rimandi a temi classici e mitologici, a radici culturali della sua Terra.
Un valore aggiunto che ho imparato ad apprezzare, strada facendo.
Altra nota di merito che mi sento di annotare è la capacità dell’autore di far convivere momenti di calma piatta, con disperate introspezioni; serate brave fra colleghi, con drammatici confronti fra anime .
Nel momento in cui il dramma di un suicidio annunciato si fa strada, ho poi avuto la sensazione che McIlvanney volesse condurre il lettore ad una sorta di comprensione/compassione verso l’atteggiamento di rigidità di una delle figure chiavi del romanzo ( la moglie del protagonista), riportando alla neutralità ogni possibile giudizio emotivo o morale.
Il regalo di Nessus, una tunica che aderisce al corpo, fino a fondersi con la pelle.
Ruoli e clichè che soffocano e annientano.
Un rimando alla mitologia greca che colpisce nel segno, anche per la sua attualità.

(P.s. Grazie a W.G.P.)

Primo Levi

"La memoria umana è uno strumento meraviglioso, ma fallace. " - I sommersi e i salvati


Leggere Levi con la distanza e l'obiettività che dovrebbe contraddistinguere chi non ha vissuto il suo dramma è impossibile. E' come se il peso delle colpe passate continuassero a gravare in una perpetua ripetizione.
La sua scrittura precisa, austera, essenziale, colpisce in pieno viso.
Alle mille domande che il lettore si appunta, Levi risponde in modo diretto. I dubbi, i vuoti, i perchè sono catalogati, con la stessa ossessiva precisione con cui le SS contabilizzavano i prigionieri, prima di decretarne il destino.

"I sommersi e i salvati" funge forse da riepilogo generale: i Lager vengono sezionati, studiate le dinamiche fra aguzzini e vittime, fra vittime e vittime.
Perchè l'Olocausto? Perchè non vi fu ribellione da parte degli Ebrei? Davvero la gente comune non sapeva? Chi erano gli aguzzini? 

Così precisa nel capitolo conclusivo " Il termine "aguzzini "  fa pensare  a individui distorti, nati male, sadici...invece erano fatti della nostra stessa stoffa, erano esseri umani medi, mediamente intelligenti, mediamente malvagi: salvo eccezioni, non erano mostri, avevano il nostro viso, ma erano stati educati male:...alcuni fanaticamente convinti del verbo nazista, molti indifferenti, o paurosi di punizioni, o desiderosi di fare carriera....Tutti avevano subito la terrificante diseducazione fornita e imposta dalla scuola quale era stata voluta da Hitler... Alcuni, pochissimi per la verità, ebbero ripensamenti, chiesero il trasferimento al fronte....o scelsero il suicidio....dietro la loro responsabilità sta quella della maggioranza dei tedeschi, che ha accettato all'inizio, per pigrizia mentale, per calcolo miope, per stupidità, per orgoglio nazionale, le belle parole del caporale Hitler, lo ha seguito finché la fortuna e la mancanza di scrupoli lo hanno favorito, è stata travolta dalla sua rovina, funestata da lutti, miseria e rimorsi e riabilitata  pochi anni dopo,  per uno spregiudicato gioco politico."




"Coloro che hanno sperimentato la prigionia ( e, molto più in generale, tutti gli individui che hanno attraversato esperienze severe) si dividono in due categorie ben distinte, con rare sfumature intermedie: quelli che tacciono e quelli che raccontano. Entrambi obbediscono a valide ragioni..." - I sommersi e i salvati -


























da I sommersi e i salvati
Jéan Améry-filosofo (Hans Mayer). Così ne parla Levi:" a lui di essere ebreo non importa, ma per i nazisti le sue opinioni e tendenze non hanno alcun peso: la sola cosa che conti è il sangue, ed il suo è impuro quanto basta per farne un nemico del germanesimo".

Riferendosi poi al tema del suicidio nel 1896 scrive   che "gli scopi della vita sono la difesa ottima contro la morte, non solo nel Lager" . 
 Perché, dunque, nell' aprile dell' 87  Primo Levi si uccide?

domenica 14 febbraio 2016

L'uomo che allevava i gatti - Mo Yan

Quando un libro finisce, ma la sua storia, come eco, continua a tornare …




 L’uomo che allevava i gatti: un libro dal titolo curioso, preso dal suo ultimo racconto, una storia surreale che ricorda la fiaba del Pifferaio Magico.

Ho atteso qualche giorno prima scrivere le mie impressioni  su questo testo di Mo Yan del 1986. Avevo necessità di ritrovare   equilibrio,  superare il disagio provato.

Perfetta la motivazione del Nobel vinto nel 2012: qui, e sicuramente più che in “Le rane”, l'“allucinante realismo” pervade ogni frase,  al punto da togliere ogni possibilità di replica.

Dure le trame che legano fra loro i nove racconti; unico il protagonista che rivive i luoghi della sua infanzia e ritrova nel presente le sue radici; agghiaccianti le  immagini di vita quotidiana. 

La capacità di MoYan di creare illusioni emotive è notevole: una sfida che si gioca fra  poetiche   descrizioni ambientali  e  gesti di  una brutalità disarmante. 
Profumi e  colori, alberi in fiore, fiumi, la natura con le sue stagioni,  sono solo veli sovrapposti, sotto i quali si consumano drammi, violenze,   abusi, soprusi . Una  “normale quotidianità contadina” di pochi decenni fa, che pare però proiettata nel periodo più cupo del nostro Medio Evo. 
Così una madre amputa il dito indice del figlio per impedirgli di andare a caccia, perché (…)”studiare seriamente è il tuo solo dovere, ricordalo!”(...).
I figli sono picchiati dai genitori fino a morirne; i loro resti abbandonati nei campi, alla mercé del  villaggio, affinché attraverso il sacrificio sia lavata un’onta, sia salvo l’onore della famiglia umiliata.
Padri austeri, imponenti, più simili a tiranni, urlano la loro rabbia; madri fragili, prive di diritto di replica, soccombono e bambini, tanti, troppi, muoiono tragicamente o sopravvivono senza grazia alcuna, come fantocci in balia della vita. 
Scrive l’autore che durante il periodo del controllo delle nascite ( nrd. - a partire dalla metà degli Anni Sessanta) (…)“ il neonato abbandonato era uno strano oggetto nel quale si concentravano un gran numero di contraddizioni: sbarazzarsene non era giusto, non sbarazzarsene anche.  L’umanità si è evoluta sino ai nostri giorni, ma la sua distanza dal mondo animale è sottile quanto un foglio di carta bianca. La natura umana è fragile e sottile quanto un foglio e, con la stessa facilità, si lacera al minimo tocco…”(…). 
E più tardi, quando  l’Europa sta vivendo l’ebrezza dei “Mitici Anni Ottanta”, in Cina (…)" si combatte la venuta al mondo, come   un flagello.(...) Ma , si domanda l'autore (...)Preservativi, spirali, aborti, chiusura delle tube, vasectomie, aborti  sono forse meno crudeli dell’uccisione o dell’abbandono di neonati? "(…)  
Mentre in Europa la gioventù è rampante e il boom demografico  ormai in calo, nella regione di Shandong si fanno ancora i conti fra  il numero degli abitanti e le risorse economiche da dividere. 
La Terra: un unico Pianeta con   Universi  ben distinti. 
In Cina servono figli maschi, perché solo un  figlio per coppia è concesso,  e se fosse femmina sarebbe un peso economicamente gravoso.
Negli  Anni Ottanta (…) “tra i neonati che vengono abbandonati non ci sono maschi. Valutando  la questione superficialmente, si potrebbe dire che la pianificazione delle nascite ha trasformato alcuni genitori in bestie. Analizzando la cosa più in profondità, ritengo che la colpa principale sia da imputare a una mentalità tradizionale e maschilista.… Si tratta di un fenomeno oggettivo, che ….danneggia la gloriosa reputazione della Repubblica Popolare Cinese. …sarà difficile arrestarlo in tempi brevi. Nei villaggi di campagna, sporchi e puzzolenti da far allontanare il cielo, arrugginirebbero persino le spade fatte di diamante. (…). 
E  a tratti l’autore    cade  nella trappola del cinismo (…)” Perché fare gli schizzinosi? Questa era la vita!... la cosa più tragica e terribile di questo mondo è la buona coscienza…Centinaia di persone si trovavano sull’aia…Avevano un’aria di compassione che mal celava il piacere evidente che provavano di fronte allo spettacolo della sfortuna altrui…Mio fratello era morto annegato…La folla era venuta ad assistere allo spettacolo… attirata dall’odore della morte(…).


Il destino degli uomini è deciso dal cielo, e non c’è niente da fare  afferma Mo Yan.












Le rane - Mo Yan

rana e neonato in cinese hanno lo stesso suono – wa “




A volte penso che la scelta di un libro risponda alle stesse leggi che regolano l’amore. Colpo di fulmine, curiosità, emozione e, talvolta , anche delusione. Ho iniziato la lettura di questo testo compiendo il classico salto nel vuoto: poco conosco della Cina, ancora meno ciò che riguarda la sua recente storia politica.
L’autore: nel 2012 riceve un premio Nobel per la letteratura che crea non pochi imbarazzi. 
Mo Yan: uno scrittore che sceglie come pseudonimo due parole, “NON PARLARE” : l’esatto opposto del narrare. 
La motivazione del premio: “ l’ allucinante realismo” delle sue opere, nelle quali, però, la denuncia degli orrori e degli errori commessi dalla Rivoluzione Culturale non mi è parsa affatto gridata, ma anzi sospesa fra le righe. Una fotografia senza ritocchi post produzione.

Leggo:
(…) Nell’autunno del 1962, il raccolto di patate dolci nei duemila ettari della zona a N-E di Gaomi fu eccezionale…Dopo due mesi di scorpacciate di patate, praticamente tutte le donne del villaggio rimasero incinte. All’inizio del 1963 assistemmo al primo boom demografico dopo la Liberazione. Nei 48 villaggi della nostra comune popolare nacquero 2868 bambini. Mia zia li chiamò “ i figlie delle patate dolci”….Quando i genitori andavano alla comune popolare a registrare la nascita dei “figli delle patate dolci” ricevevano un buono per 5 metri di stoffa e un litro di olio di semi di soia. …L’impennata demografica della fine del 1965 mise le autorità sotto pressione. Iniziò la prima ondata di controllo delle nascite dalla fondazione della nuova Cina. Il governo lanciò lo slogan: uno non è poco, due sono giusti, tre sono troppi(…)”.
Da qui “l’allucinante realismo” del racconto prende vita.
Il protagonista, vittima e carnefice di una crudele ragione di stato, scrive “(…)ho voluto, attraverso la narrazione, confessare le mie colpe nella speranza di alleviare il peso dei miei peccati. …La scrittura può essere una forma di riscatto ed è per questo che continuerò a scrivere.(…)” , ma la sua denuncia resta sempre velata dalla inevitabilità dei fatti. 
Le rane: perché questo titolo? (…)”rana e neonato in cinese hanno lo stesso suono – wa “.
La zia-ostetrica aveva fatto nascere migliaia di bambini, per diventare poi la mano del boia, colei che costringeva le donne del distretto ad abortire. Una notte la sua inattaccabile fede al regime viene minata dal gracidio delle rane. 
Null’altro aggiungo.